Bentornati su Storymancer! Per l’Edicola delle Storie (Im)perfette, ecco a voi Banana a Tempo, di Davide Ragona (aka Dave).
Segnaliamo:
- per la prima stagione dell’Edicola, proclamata su Twitch durante la live de Il Ruolo delle Storie del 25 settembre 2020, i racconti di Simone Miraldi (aka Doctor Nowhere): Il Giornale a Metà; e quello di Roberto Villa, intitolato Il Venditore di Sogni.
- per la seconda stagione, denominata Racconti al Buio e ideata coi nostri amici e patner di Scripta (Pietro Sgherzi e Tiziano Ottaviani), invece, Il Trepunte Bianco di Simone Miraldi (aka Doctor Nowhere) – editato da Roberto Villa – e, di Roberto Villa, Il Sorriso del Tiranno, editato da MerondesejBLAZE55.
Come ogni racconto della seconda stagione, anche questo è stato editato da uno dei nostri partecipanti: Pietro Sgherzi.
Ricordiamo: cos’è l’Edicola?
L’Edicola delle Storie (Im)perfette è un setting condiviso per racconti di realismo magico. Tra le ispirazioni ci sono Italo Calvino, Stefano Benni, Dino Buzzati, Stephen King, ma anche Dylan Dog e Piccoli Brividi.
Elemento focale di questa ambientazione è l’Edicola: un luogo misterioso che cambia aspetto in base all’epoca e al luogo in cui compare. Chiunque la visiti vi troverà non ciò che vuole, ma ciò di cui ha veramente bisogno: saranno clienti dalla storia (im)perfetta e, in quanto tale, migliorabile.
A tentarlo sarà l’Edicola stessa, o il suo proprietario: un individuo che non si mostra mai del tutto. Sarà riconoscibile da un gesto o da un particolare, ma il suo volto e la sua identità rimarranno segreti. Lo faranno con un oggetto all’apparenza mondano, o per il tramite di un fenomeno magico.
Quale che ne sia il ruolo, la magia va sempre calata nel reale: è un’allegoria, o una metafora, che rompe la realtà senza mai sfuggirle del tutto. Non saranno dunque adatti i mondi fantasy, che siano ambientati nel passato o nel futuro; la base è sempre la quotidianità del nostro mondo e, di conseguenza, il setting dovrà sempre essere realistico e immaginabile.
Banana a Tempo
Autore: Davide Ragona (aka Dave)
Editing: Pietro “Il Pellegrino” Sgherzi
Se tutto andrà come deve andare, tra 57 minuti ogni singolo passeggero e l’intero equipaggio
della SS Redmond non esisterà più.
Tutti morti. Un risultato eccellente.
Immagino già cosa scriveranno i giornali del mio gesto. Parleranno del dolore che si è lasciata
dietro quella sgualdrina di Colette dopo sedici anni di matrimonio, addurranno a presunti problemi
finanziari e alcuni si spingeranno, per vendere qualche copia in più, a definirmi completamente
pazzo.
Tutti lontani dal vero, quanto io dalla superficie dell’oceano.
Oggi, 12 gennaio 1820, farò colare a picco questo maledetto transatlantico. Peccato che il mondo
esterno non saprà mai la motivazione: il terzo bottone della mia giacca da capitano.
Già.
L’ho sempre adorato.
Lucido, fiero e luminoso. Di gran lunga più degli altri in fila nelle asole che, forse l’ho notato
solo io guardandomi allo specchio, sono sensibilmente più opachi.
La tempesta infuria oltre i boccaporti, nel bel mezzo dell’oceano Atlantico, e tutte le anime su
questa nave a vapore in meno di un’ora avranno così tanta acqua salata nelle viscere, da non esser
mai più sobri. Acqua e non sobri… che curioso pensiero, chissà come mi è balzato in capo. Rido da
solo.
Gli ordini sono stati dati: navigare verso il centro della tempesta. Nulla può cambiare. Ho
desiderato così tanto questo finale.
«Capitano! Aveva ragione! Barra a dritta, sembra esserci uno spiraglio tra le nubi.» Le parole del
timoniere mi colpiscono come un sasso in testa. Non è possibile. Non doveva andare così. Mi gira la
testa, mi appoggio al corrimano. Il morale sul ponte di comando si solleva quel tanto che basta da
instillarmi un dubbio atroce: possibile che io venga ricordato come un eroe? No! Non voglio. Devo
essere ricordato come un assassino!
Tiro fuori dal taschino l’orologio. Mancano 43 minuti alla fine che desidero dare a questa storia.
Devo fare qualcosa se voglio rimettere il destino in carreggiata.
Mi tengo saldo e riprendo il controllo di me stesso. Dispongo di non variare la rotta verso il cuore
della tempesta, mentre il mio pensiero corre alla sala macchine: se lascio che la pressione salga fino
a fare esplodere i motori, anche una burrasca col fiato corto può compiere il suo dovere.
I passi riecheggiano nei corridoi e non sento altro che il ticchettio del destino. Le voci spaventate
dei passeggeri che si accalcano al mio incedere sembrano lontane. Gli lascio credere che sto lottando
per la loro salvezza masticando solo qualche mezza parola, un sorriso forzato mentre mi faccio
strada. Volete togliervi di mezzo, maledetti? Lasciatemi passare, mancano solo 36 minuti a quando
affogherò voi e questa nave.
Raggiungo l’ingresso del cuore solitario e umido della Redmond, dove è riposta la mia speranza
di portare a termine questa ecatombe.
«Benvenuto!» Mi saluta un uomo che non ho mai incontrato prima.
Non era così la sala macchine l’ultima volta che vi sono entrato. Lo fisso in viso ma non ne
scorgo i lineamenti, mi arrendo e percorro con lo sguardo ciò che ha attorno. Un’edicola pigiata a
forza nel più remoto luogo della nave? Sto forse sognando?
Ammassi di giornali che debordano dal pertugio in cui è incastrato l’edicolante, colori e forme
che non ho mai visto né a Londra né in nessun altro porto, diavolerie che mi sono sconosciute, forse
di troppa recente concezione per un uomo che mette piede sulla terraferma tre volte all’anno, quando
va bene. La mia mente si arrangia come può a trovare un senso alla sua aliena presenza in questo
luogo. Devo far salire la pressione, lasciare che le lamiere si schiudano come boccioli di rosa, non
perdere tempo a chiedermi chi sia costui né cosa voglia.
«Ah il destino! Quando è avverso ai nostri piani, ha sempre bisogno di una certa spinta per
tornare al proprio posto, non trova capitano?»
Sembra dirlo con cognizione di causa, scartabellando tra le pagine e le chincaglierie di cui
dispone, quando mancano soltanto 28 minuti.
«Cosa cerchi?»
Non so bene chi di noi due lo abbia pronunciato.
Attendo e poi cedo, gorgogliando la mia rabbia verso chi non vive la mia stessa solitudine, su di
lui che ascolta. Annuisce e annuisce ancora mentre non si ferma un solo istante di dragare con le dita
le profondità delle sue mercanzie. Neppure mi guarda.
Si limita ad affondare le mani.
«Ecco! Questa ti restituirà lo sterminio che l’ironia della sorte ti sta portando via: sbrigati ti
restano soltanto 17 minuti, vero?»
Mi porge una banana. Gialla, puntinata di nei. La mia ragione torna a fare le capriole, ma afferro
il frutto.
«Uno scellino, prego.»
Lascio cadere la moneta sulla sua mano. Ha la linea del destino che curva più del solito.
Emergo dalla sala macchine e conquisto svelto il ponte, solo per sentirmi dire ciò che non vorrei
ascoltare.
«Capitano siamo salvi! Guardi!»
All’orizzonte l’unghia serena si è allargata e io che volevo affogarli, dirigendoli al centro della
tempesta, mi ritrovo a constatare di avergli dato al contrario una scorciatoia verso la salvezza. Ma mi
resta sempre questa banana, la mia sola speranza a detta dell’edicolante. Comincio a maledirmi per
essermi fatto abbindolare da un cialtrone, tengo il frutto in mano sperando che nelle sue parole fosse
nascosto un briciolo di verità.
Qualcuno tra i miei uomini guarda la banana che stringo in mano. Non capiscono. Neanche io.
Mancano solo 3 minuti e comincio a tirarne la buccia. Una striscia per volta. Serve un atto di fede e
cesseranno di esistere tutti.
Il frutto è dolciastro, molle in bocca, lo schiaccio contro il palato come facevo quando ero un
bambino e poi con la lingua lo stacco a fatica. Mastico il giallognolo vessillo della morte come fosse
un’ostia da profanare, immaginando che il transatlantico coli a picco e con sé tutti quanti.
Butto a terra ciò che resta del frutto quando manca un solo minuto, eppure stiamo ancora
galleggiando. Ingoio l’ultimo boccone e tutti mi sorridono.
«Capitano, aveva ragione…»
La tempesta ci sta lasciando, l’oceano si placa, muovo un passo indietro e il mio tacco sinistro
balla un valzer con la buccia di banana. Tutto comincia ad affondare mentre la prospettiva della
realtà si prende gioco di me. Schianto il cranio sullo spigolo e la materia grigia si riversa al suolo
come albume.
Chiudo gli occhi, sono nel vuoto mentre tutti cessano di esistere.