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Photo by Jr Korpa on Unsplash

Bentornati su Storymancer! Inauguriamo oggi la nostra nuova rubrica: Il Grimorio dei Racconti.

Che cos’è il Grimorio dei Racconti?

Il Grimorio dei Racconti è un mistico artefatto rinvenuto nelle polverose segrete di Storymancer. Ha l’aspetto di antico tomo, preziosamente rilegato, che rivela un nuovo racconto a ogni apertura.

La redazione di Storymancer ha dunque deciso di collegare magicamente il Grimorio a questo sito e rendervi partecipi dei suoi contenuti. Sembrano scritti da Roberto, quindi potrebbero lasciarvi perplessi ma, fidatevi: è solo un’impressione!

Spunti-3-Parole

Attraverso approfonditi esami ed esperimenti proibiti da ogni società magica che si rispetti, gli Storimanti sono riusciti a scoprire il segreto più arcano del Grimorio dei Racconti: potete ispirargli nuovi contenuti!

Farlo è semplicissimo: non dovrete far altro che pensare intensamente a tre (3) parole, di cui un verbo (mi raccomando), e scrivercele nella nostra Chat Arcana, il nostro canale Telegram, oppure mandarcele alla nostra email. La magia farà il resto!

Fragola che Abbaia

Spunto di MerondesejBLAZE55: fragola, abbaiare, riposato

…hihuahua…

Daniele aprì gli occhi sul vecchio portatile.

Ripeto. L’aeromobile è in procinto di atterrare all’Aeroporto Internazionale di Chihuahua.
Si prega di allacciare le cinture di sicurezza, e di porre il sedile in posizione verticale.
La temperatura esterna è di…

Si assicurò che la cintura fosse ancora ben stretta. Per scrupolo. E chiuse il portatile.
Sollevò la tenda del finestrino e la luce gli fece subito richiudere gli occhi. La riabbassò con una smorfia e si controllò il cellulare: erano le 14:15, aveva dormito quasi 4 ore.
Con un paio di sobbalzi, l’aereo atterrò e si fermò davanti al terminale. Un applauso riempì la fusoliera. Daniele sollevò gli occhi esasperato. Ci facciamo sempre riconoscere.

Ora che giunse al nastro dei bagagli, dovette togliersi il giacchetto. Lo infilò sotto il braccio e si sbottonò la camicia sotto il maglione. Mi preparo sempre troppo.
Prese le valige e seguì le indicazioni verso l’uscita.
«Salida… salida…», individuò una porticina e si unì alla piccola calca.
Oltre una transenna c’era il solito viavai di parenti, colleghi e amici. D’istinto, guardò oltre, verso le poche figure che tenevano la distanza. Una manciata di tassisti dall’aria trasandata, due autisti in abito da lavoro, ma nessuno che avesse un cartello con il suo nome.  
Il berciare di richiami e saluti, baci e abbracci lo travolse. Ogni santa volta, accartocciò il viso in una smorfia. Lottò con la corrente umana e si protese a forza.  Niente. Nella foga, diede una ginocchiata. Un pianto si levò appena dietro di lui, seguito dalla voce di una giovane donna.
Bambini
. Maledisse in silenzio i turisti e tutti quelli che avevano parenti e sgomitò per dileguarsi.
Una mano lo toccò sulla spalla. Cazzo, chiuse gli occhi, la madre.
«Señor Lucci», la voce era quella di un uomo. Aveva un forte accento locale.
Un piccolo messicano si era intrufolato tra gli astanti e sbucava tra una vecchia signora che accoglieva il nipote, e un vecchio che borbottava impaziente. In mano aveva un foglio con il profilo di un guerriero giaguaro e la scritta, in spagnolo e inglese: “Campo Vermiglio – Chiesa dei Nativi Americani”.

Il sole radente colorava di amaranto le sabbie del deserto. A vista d’occhio, solo arbusti, e rare montagne.
Daniele aveva sperato di poter dormire, ma la guida sportiva, i ripetuti tentativi di chiacchierare dell’autista, e le occasionali buche glielo avevano impedito. L’ennesima, gli fece sbattere la testa sul tettuccio.
Si vide sospirare nello specchietto retrovisore. Due pesanti occhiaie gli infossavano gli occhi, si era ormai dimenticato com’era non averle.
L’autista lo guardò con la coda dell’occhio, «si sente bene, señor? Dopo che avremo cominciato il rituale, non riuscirà a dormire per tutta la notte».
Daniele scacciò la domanda con la mano, «quanto manca ancora?». Erano in viaggio da ore e gli faceva male il culo.
«Pochi minuti», l’ometto gli indicò un crinale, «superato quello vedremo le tende».
Si sfilò dalla tasca il biglietto con le indicazioni del campo. Gli tremava la mano. Che cosa sto facendo?
Un filo di fumo saliva, in lontananza, da un piccolo gruppo di alloggi. Polizia? Il cellulare era lì, di fianco a lui, a portata. Il profilo delle tende si alzava sempre di più sul nulla circostante, lontano da qualsiasi possibile aiuto. Gli si contrasse lo stomaco. Vide il suo ufficio, la sua vita. Così uguale, confortante… triste.
Giada, allungò la mano. Si distinguevano ormai le file di auto fuori dall’accampamento. Era una follia. Prima di partire aveva cambiato numero ma il suo lo ricordava a memoria. Era ancora in tempo.
Digitò il PIN e poi il numero di sua moglie. Le avrebbe promesso di rallentare, che avrebbe dedicato più tempo a loro due. Magari un regalo? Doveva ricordarsi di prendere qualcosa al ritorno, in aeroporto.
Il cerchio verde di avvio della chiamata lo fissava dallo schermo. L’auto si fermò di colpo.
Un insegna, lì davanti, riportava il nome del campo.
Oltre l’ingresso, un gruppo di individui, dall’aspetto quasi tutti occidentali, attendeva in abiti indigeni. Giravano in quel mare di polvere e arbusti, alcuni spaesati, altri con lo sguardo perso a pregustare ciò che sarebbe accaduto. Fossero stati clienti, non avrebbe dato mezza lira a tutta la compagnia. Ripose il telefono, ma chi voglio prendere in giro?
Se sono arrivato qui, li squadrò sconsolato, non ho davvero più alternative.
La portiera si aprì con uno scatto.

Il messaggero dell’acqua se ne andò per la seconda volta.
Preghiere e canti lo avvolsero di nuovo, insieme all’ossessivo tuonare dei tamburi.
Uccelli variopinti riempirono la stanza: i decori delle piume gli ricordarono i ventagli rituali, e il battito delle ali suonava come decine di sonagli. Le ombre si animavano e si contorcevano nel profumo dell’incenso che benediva l’aria, e danzavano animate dagli spiriti del mondo. Finalmente si sentiva in pace.
Gli passarono il bastone. Le sue mani lo raccolsero con forza e il suo canto vibrò quattro volte nella tenda, solido e pieno come solo era stato all’inizio della sua carriera.
L’alba li raggiunse.
La luce filtrò da oriente e si posò sull’altare, dove una piccola luna attendeva il saluto del giorno.
«In piedi», il Capo del Viaggio si era alzato. I canti cessarono e, con essi, il suono dei tamburi.
Di già? Il fruscio dei lembi, e una lama di sole squarciò la tenda. Daniele si schermò gli occhi con un braccio: era molto più forte di quanto pensasse: doveva essere metà mattina.
Si sollevò, come se il suo corpo non gli appartenesse, e fluttuò in fila dietro agli altri. Gli prudevano le mani dall’energia che ancora si sentiva dentro.
All’uscita della tenda, gli fu presentata la colazione: acqua cristallina, una polenta di un giallo che non aveva mai visto, fragole rubiconde, e lunghe strisce di carne essiccata. Ne addentò un pezzo, cervo.
Il cibo lo saziò come se si stesse nutrendo del mondo stesso, là, in quel deserto, davanti alla gloria del sole nascente. Il vento gli scompigliava i capelli. Era perfetto.
Il pensiero fugace del ritorno, del lavoro si fece strada nella sua mente e, per un istante, rovinò la visione. Come potrò rinunciare a tutto questo?
Prese una fragola, la sollevò davanti agli occhi e, questa, abbaiò.  Un latrato acuto e penetrante, da coyote.
Era ovvio: la natura lo stava chiamando.
Fece scorrere tra le dita la collana di semi che gli avevano dato. Maglia, pantaloni, tutto ciò che lo copriva parlava di antiche tradizioni: il suo mondo, la sua vita, se n’era svestito per indossarne una nuova.
Arrivò in fondo alla collana, dove una sacca ornata di perle nascondeva un bottone di peyote. La strinse.
Ricomincerò da capo, in questa terra. Cambierò tutto, e il mio nome sarà… Fragola che Abbaia.