Bentornati su Storymancer! Continuiamo oggi con i racconti di realismo magico italiano del nostro progetto di scrittura condivisa: l’Edicola delle Storie (Im)perfette. Il setting è nato durante la live del nostro format Il Ruolo delle Storie, andata in onda su Twitch il 25 settembre 2020.
Attualmente si è conclusa la seconda stagione, creata durante una live successiva de Il Ruolo delle Storie, trasmessa su Twitch il 20 novembre 2020 con gli amici di Scripta. Il nuovo ciclo prende il nome di Racconti al Buio e coinvolge maggiormente i suoi partecipanti: i nostri autori sono stati infatti chiamati a editarsi i racconti a vicenda, senza però sapere fino all’ultimo le rispettive assegnazioni.
Il 6 marzo 2021, dopo l’editing della redazione, abbiamo pubblicato il primo racconto dell’Edicola: Il Giornale a Metà, di Simone Miraldi, in arte Doctor Nowhere. Con l’articolo di oggi vogliamo, invece, presentarvi il racconto di Roberto Villa, intitolato Il Venditore di Sogni, e ugualmente editato da noi.
L’Edicola delle Storie (Im)perfette: Racconti di realismo magico italiano
L’Edicola delle Storie (Im)perfette è un setting condiviso per racconti di realismo magico italiano. L’ambientazione è ispirata a Italo Calvino, Stefano Benni, Dino Buzzati, ma anche allo Stephen King più realista, e al realismo pauroso di alcuni numeri di Dylan Dog e Piccoli Brividi.
Ogni racconto può essere lungo fino a 4 cartelle (massimo 8000 caratteri, spazi inclusi), e narra le vicende di persone dalle storie imperfette, ambientate in qualsiasi epoca e luogo.
I protagonisti si imbatteranno nell’Edicola, un luogo misterioso che cambia aspetto in base al luogo e all’epoca in cui compare. Al suo interno, gli involontari clienti troveranno qualcosa che li porterà lontano da ciò che vorrebbero, verso ciò di cui, invece, hanno bisogno.
Questo oggetto potrà essere un giornale, una rivista, un volantino – un normale prodotto da edicola –, o qualcosa di più strano e magico, come una scritta comparsa dove prima non c’era. Sarà tuttavia l’Edicola stessa, o l’edicolante, a tentare il cliente all’acquisto o comunque a suggerirgli, direttamente o indirettamente, la sua più vera e profonda necessità.
Cosa importante è che la figura dell’edicolante non è mai palese: è una voce, una mano, l’ombra dietro una tenda. Allude, insinua, alletta, ma non si vedrà mai del tutto.
In tutti i racconti, l’elemento magico o surreale va calato nel reale: bisogna utilizzarlo come allegoria, metafora, o rappresentazione simbolica che rompe la realtà senza mai sfuggirle. Non vanno dunque bene i mondi fantastici e magici, che siano ambientati in un ipotetico passato, o in un futuro remoto. La base è sempre la quotidianità del nostro mondo: funziona dunque ogni storia ambientata in un passato o in un futuro realistico e immaginabile.
Il Venditore di Sogni, di Roberto Villa
Dalla sua poltrona, il brulichio di pennoni e bandiere gli fece capire che il traffico dei velieri scorreva noncurante dell’affacciarsi della sera.
Sir Donovan posò la tazzina sulla scrivania e schioccò le labbra; soddisfatto, si avvicinò al davanzale per vedere meglio il suo bastimento uscire dal delta.
Stagliato contro il cielo, sul Fiume delle Perle in direzione Macao, si allontanava il suo prossimo profitto, o almeno così sperava: quattrocento tonnellate di quell’ottimo tè che gli scaldava la gola, e che, ci avrebbe scommesso, entro un anno avrebbe spolpato quei coglioni aristocratici a Dublino.
Ah! Poteva vederli, con le dita grassocce a svuotarsi le borse. Quelle stesse che erano rimaste ben chiuse durante la carestia. Volevano il loro sogno? Glielo avrebbe venduto lui, e che andassero in malora! Li avrebbe spolpati fino all’ultimo scellino. Sorrise, e fanculo anche i cinesi.
Seguì il vascello con gli occhi mentre approcciava il mare, ma una nuvola di vapore glielo coprì alla vista. Un piroscafo americano.
Maledetti coloni, prese la pipa, l’accese, e si mise a sbuffare, non gli basta rovinarmi gli affari?
La pipa faticava ad accendersi. Sbirciò dentro: il tabacco era quasi finito. Il pendolo suonò le 18. Mi toccherà andare domani a comprarlo.
Una mano debole bussò esitante alla porta.
«Finalmente!», ripose la pipa. Erano senza dubbio i suoi corrieri, il suo piccolo piano di riserva. Giusto per fregare meglio tutti quei dannati concorrenti.
Si guardò allo specchio e si sistemò il ciuffo di capelli rossi, alzò il bavero e contrasse le sopracciglia. Il solito. Era più che sufficiente a farli spaventare.
«Avanti».
Due scheletri d’uomo si costrinsero dentro e si fermarono a due passi dalla porta, contriti nei loro quattro stracci.
Sir Donovan li squadrò. «Ebbene?».
Quello più indietro spinse l’altro in avanti. Il ragazzo-teschio teneva una valigia dietro la schiena.
Sir Donovan si protrasse e gliela strappò di mano, poggiandola con un tonfo sulla scrivania. Sbuffò d’emozione. La aprì, gustò per qualche secondo quel ben di dio e uno a uno tirò fuori i panetti. Il suo volto si fece cupo.
Diede un’occhiata ancora, poi smise di contare. «Ma ci sono ancora tutti!».
Il corriere, che alla vista dell’oppio aveva strabuzzato gli occhi, fu trascinato indietro dal compagno, rimasto vicino alla porta.
«Signore», gli rispose questi in un inglese stentato, «non siamo riusciti a piazzarlo».
«Sono gli americani!». Sir Donovan batté i pugni sul tavolo, i panetti sobbalzarono. «Loro e il loro… ciarpame ottomano!».
«Abbiamo provato ovunque», il cinese strinse il cappello tra le mani.
Sir Donovan prese un panetto, «non servite a un cazzo», ringhiò e lo sbatté nella valigia.
Quelli si ritrassero.
«Signore», continuò quello che sapeva l’inglese, «ci aveva promesso una dose—». L’altro gli diede una gomitata.
Gli occhi di Sir Donovan si infuocarono. «Sparite!» e gli lanciò contro il tagliacarte, mancandoli.
I due si dileguarono.
«Dovrò fare da me».
«Fuori», la voce del proprietario flautò dall’ombra delle candele. Le guardie aprirono la porta, e uno spiffero freddo s’insinuò nel negozio, facendo tremolare le fiammelle.
Sir Donovan non si mosse, quella era la sua ultima spiaggia.
Ching Yong si lisciò i baffi sorridendo. Sir Donovan era troppo stanco dalla giornata di trattative per imbufalirsi. Poi: i due energumeni a lato dell’uscio, l’essere solo, le cattive notizie dalla sua spedizione… ebbe un moto di incertezza.
«M-ma non è occidentale», Sir Donovan puntò con lo sguardo i panetti di Ching Yong. «Non è neanche americano, guardi la differenza!», e gli mostrò un panetto dei suoi per l’ennesima volta.
Al suo protendersi, i due energumeni scattarono in avanti, lo presero sottobraccio e lo scaraventarono sulla strada, ormai illuminata solo da un lontano lampione. La sua valigia atterrò lì accanto, aprendosi e spargendo panetti ovunque.
Con il panetto ancora in mano, «vi giuro, avete preso un abbaglio», arrancò carponi verso la porta, «state vendendo roba cinese!».
«Ho sentito abbastanza», tagliò corto il proprietario, «non tornate più». Gli chiuse la porta in faccia, e lo lasciò al buio.
Rientrò a casa sbattendo la porta. Guardò la valigetta distrutta nella sua mano e la scagliò alla cieca.
Si portò le dita alla tasca sinistra del panciotto. Vi tirò fuori un ciondolo, e lo aprì.
«Brìgh…». Sua sorella sorrideva, giovane, dal piccolo castone d’argento. «Perché mi sorridi?», le chiese nel suo dialetto natale, «sei sempre stata cocciuta, ma ti sbagli: tuo fratello è un buono a nulla».
Sulla scrivania lo attendeva la povera cena che gli aveva lasciato Ceara: pane vecchio, e quella che voleva passare per zuppa. Poco più che acqua sporca. «Ho attraversato il mondo, per questo?». Toccò la tazza, era pure fredda. Strinse il ciondolo. «Tanto valeva morire con te».
Ceara dormiva sul suo letto, ancora vestita e truccata da lavoro. Spero che la sua giornata sia stata migliore della mia. Le puttane straniere dovrebbero ancora andare, almeno tra i marinai. Appoggiò le mani sul tavolo e si guardò allo specchio. Era l’ombra di sé stesso. Sospirò, «è un mese ormai. Tutto quel tè… e il magazzino, in fiamme», la lettera bruciacchiata con l’ultimo inventario era lì davanti, aperta da due settimane. «E ora cosa vendo?».
Un cigolio, e le note di una vecchia melodia riempirono la strada, «greensleeves!?». La preferita di sua sorella. Andò alla finestra che dava sul mercato.
La musica usciva dalla porta socchiusa di un negozio, poco distante; l’insegna era illeggibile, l’interno buio.
Scese in strada stringendosi nel bavero del cappotto e sgusciò tra le ombre della notte.
La porta del negozio era piccola e in legno lavorato. L’aprì, circospetto. Al centro, sotto una piccola lanterna, una tazza fumava su un tavolino. L’aroma di bergamotto gli fece vacillare le ginocchia. Si sedette su uno dei tanti cuscini, e ingollò a grandi sorsi. Il liquido bollente gli scaldò lo stomaco vuoto. Era di sicuro più sostanzioso della zuppa.
Una risata da tabagista lo riscosse. Sul fondo della stanza, dietro un velo, sedeva un’ombra.
«Mi scusi», disse Sir Donovan, ma la figura scosse la mano e sporse una pipa a indicare al suo fianco.
Poco a sinistra, un grammofono suonava su un mobiletto. Dalle sue mensole sporgevano dei giornali.
Sir Donovan allungò un braccio e ne prese uno. «L’Observer?». Lo aprì, e bevve un altro sorso.
«Oh? La nomina a Imperatrice d’India… è di quest’anno». Lesse la data, e il tè gli andò di traverso: domenica 2 aprile 1876. «È di oggi!?». Era tiepido, come fosse caldo di stampa. «Non è possibile…».
Frugò tra le altre testate. Tutte di quel giorno. C’era persino il Freeman’s Journal, della sua città.
Scavò tra le testate, ce n’erano da tutto il mondo. Ne trovò una cinese. Non sapeva bene la lingua, ma chissà che ci fosse qualche dritta.
Non appena lo sfilò, un volantino gli svolazzò in grembo. Sotto il disegno di una signorina intenta a fumare, una scritta a caratteri cubitali. Erano alcune delle parole che capiva meglio. Di sicuro quelle che sperava di più di leggere: Fumeria d’oppio – Canton – Nuova apertura.
La stradina era buia e libera dai soliti pezzenti. Una posizione curiosa.
Ricontrollò il volantino: l’indirizzo era giusto. Scrollò le spalle, l’importante è che comprino. Si sistemò i baffi alla meno peggio e, valigia alla mano, marciò verso l’insegna sul fondo.
Le scale dell’ingresso erano sgombre, nemmeno un vecchio che contrattava una dose in cambio della figlia.
Un’altra occhiata speranzosa al vicolo, ma l’unica compagnia fu quella del vento. Eppure il più ricco, da queste parti, campa al massimo dei pidocchi che ha in testa. Almeno qualcuno dovrebbe esserci.
Sir Donovan stritolò il volantino, cinesi del cazzo, lo scagliò con rabbia a terra, è ovvio che questi non bastino! Inspirò, dovrò pure investirci sopra. Sentì stringersi lo stomaco. Un altro buco nell’ acqua? No, soffiò fuori l’ansia, sono solo tra i primi. Annuì, devo fare una buona impressione.
Strizzò gli occhi per distinguere quei dannati ideogrammi sull’insegna a lato, «T…ai–».
«Taiping», una signorina avvolta nella seta era comparsa sulla porta, «significa “Grande Pace”».
Appropriato. Fece un cenno, come a levarsi un cappello che non aveva, «parla un ottimo inglese».
Gli occhi della ragazza si assottigliarono accennando un sorriso che la sua bocca non rivelava, «abbiamo molti clienti occidentali».
«Io non sono un cliente», Sir Donovan sollevò la valigetta.
La signorina si limitò a cinguettare una risata e scivolò indietro. Oscillò per qualche secondo fissando Sir Donovan negli occhi e insinuò la mano verso l’esterno, «prego».
Sì! Le budella gli si sciolsero. Balzò sull’uscio ma si fermò, incuriosito dal legno degli infissi. Ci passò un dito, ancora freddo per l’ansia. Erano davvero nuovi, ma lo stile lo aveva visto uguale nei palazzi più vecchi, «sa solo iddio perché vi condannate a rifare le cose».
La ragazza scivolò coi suoi veli nel corridoio oltre l’ingresso, «per imparare. La perfezione non si compra».
Sir Donovan serrò il pugno sul manico della valigia, «ma si può sempre esplorare qualcosa di nuovo e migliore», e la seguì tra alcuni dei lettini più spogli che avesse mai visto. Erano vuoti, sorrise: sono tra i primi ad arrivare, certo, ma tra gli ultimi ad andarsene. Ben presto li riempirò tutti.
Entrò nella stanza successiva e fu avvolto da una densa nube dolciastra; la signorina se ne lasciò inghiottire, aggraziata come una lama, e la perse di vista. Fu costretto a seguirne la scia: un lieve, ma distinto aroma d’incenso.
Giunsero in un punto in cui sulle pareti si aprivano dei vani, come nella carrozza di un treno. Si affacciò al più vicino. «Ecco», ammiccò «questo è migliore».
Un solo, ampio letto occupava il centro di una stanza ottagonale, arredata con tutti i lussi: tavolini intarsiati, cuscini di seta; le pareti stesse erano appesantite da tende ricamate e stucchi dorati. Sir Donovan ne seguì gli ornamenti con lo sguardo, verso l’alto: il soffitto, a cassettoni dipinti, si levava ben al di sopra di quanto avrebbe permesso al fumo di stagnare, «che scelta… peculiare».
«Puntiamo molto alla comodità», disse la ragazza, dietro il velo: «li fa tornare».
Tornare? Sir Donovan ripensò alle poche persone viste nel quartiere, le uniche che avrebbero potuto venire lì. Uno sguardo di sufficienza gli si dipinse in viso: erano tutti uguali, miserabili, distrutti dalla loro stessa debolezza. Come fanno a tornare!? Di sicuro muoiono troppo in fretta per guadagnarci abbastanza.
L’occhio gli cadde sulla valigetta sbrindellata. I poveri erano tanti, si disse con un sospiro. Si sarebbe accontentato, per ora.
«Clienti importanti?». Ripensò alla spedizione verso l’Irlanda, e sperò che la ragazza menzionasse qualche ricco commerciante della città.
Un’altra risata cristallina, «non lo sono forse tutti i nostri clienti?».
Ciò che rimaneva di uno di loro, un corpo ischeletrito, venne issato su una barella da due cinesi.
La barella gli passò davanti. Il moribondo sollevò un braccio rinsecchito, ed emise un rantolo. Indossava solo calzoni di iuta e una camicia. L’unica cosa preziosa era un ciondolo d’argento. Un occidentale. Povero fesso.
«Se la stanza vi aggrada, devo occuparmi di lui», e la signorina accennò al cliente. «Mentre aspettate…», gli indicò la pipa del moribondo, ancora fumante.
«Vi ho già detto che non sono un cliente», protestò Sir Donovan, «il pezzente può aspettare».
Lei gli si strusciò addosso, proprio come faceva Ceara quando una giornata era andata male, «ma siete così stanco! Il té, l’incendio, e state ancora provando».
Sir Donovan sollevò un sopracciglio, ma era comunque lusingato. «Noto… che anche voi avete fatto ricerche su di me».
Lei gli carezzò il viso, «ma è tutto qui, sul vostro viso, afflosciato dalla lunga giornata». Gli premette addosso il seno: un profumato, morbido seno prosperoso. «Alleggeritelo provando la vostra merce».
Gli posò un pallido dito affusolato sul petto. Una spinta senza sforzo, e il materasso lo avvolse, soffice e caldo come se ci fosse appena stato qualcuno. Due natiche, piene come la luna, danzanti come il fuoco, raggiunsero la porta. Sir Donovan aveva le membra troppo pesanti per alzare anche solo un dito.
Riuscì solo a sfiorarle la gamba, lei si voltò, «consideratelo un premio», e chiuse lo stipite davanti a sé, poco a poco, «avete fatto così tanto. Ve lo meritate… Sir Donovan».
Sir Donovan aspirò dal bocchino a pieni polmoni. L’ansia, il disagio… tutto sparito. Si sentiva in cima al mondo.
Solo un altro, poi smetto, e aspirò ancora. Da quanti giorni sono qui?
La vista gli si confuse: i colori vivaci delle tende si trasformarono nel bianco di una parete spoglia, poi nella luce di una candela; le soffici mani che gli carezzavano la testa divennero dure come il legno.
Ancora quella figura velata. Negli ultimi giorni gli appariva anche in sogno.
«Da quanto tempo sono qui?», sbiascicò, «Io… io devo vendere!».
Lei stava in silenzio.
Qualcuno tossì, alcuni risero. Si somigliavano, c’era qualcuno di fronte che era esattamente come lui. Sempre più smunto. Ah no, era uno specchio.
Ma io non sono quel riflesso, vero sorella? Strinse forte il ciondolo.
Fuori dalla porta passò leggera una donna. Profumava d’incenso. Brigh…
La nostalgia lo sollevò di peso, aveva il volto di due cinesi visti dal basso. Lo trasportò. Passo dopo passo la inseguì, allungò il braccio.
La chiamò, allungò ancora il braccio. Lei aveva i suoi stessi zigomi, la sua stessa attaccatura dei capelli…
«Aiutami!».
«Vi ho già detto che non sono un cliente», la voce di Brigh suonava come la sua. Lo guardò con disprezzo. Perché mi guardo così?
«Ti prego, almeno tu, aiutami», le chiese ancora.
«Il pezzente può aspettare», scoprì denti, ingialliti dal té ma ancora intatti.
No! Non sono un cliente, lamentò, sempre più distante.
Non era il desiderio a muoverlo. Fu condotto in un porto.
Non sono un cliente, ripeté.
Il porto era pieno di casse, e le casse erano piene di corpi.
Si fermarono davanti a una di esse. Dublino, a caratteri cubitali. I corpi erano tutti uguali, tutti uguali a lui. Fu gettato dentro.
«Non sono un cliente», riuscì a biascicare, «io non sono… un-», il coperchio gli si abbassò sulla testa.
Nello spiraglio, rimasero solo un paio di occhi, sottili e spietati sopra un velo, «sei solo merce».
E il coperchio si chiuse.